Il magistrato al parlamento

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All’indomani dell’entrata in vigore dello Statuto albertino al magistrato fu riconosciuto un ruolo, all’interno dell’ordine politico-costituzionale, non limitato a quello di mero operatore del diritto bensì esteso a più vasti ambiti, sicché la sua figura sarebbe stata percepita come crocevia di molteplici interessi, talvolta contrastanti tra di loro.rnNelle diverse fasi storiche di vigenza dello Statuto albertino, invero, vi furono spinte e conseguenti resistenze affinché il magistrato si affrancasse dal controllo della politica, e fosse ridotto, per così dire, a quel ruolo primariamente riconosciuto dalla Costituzione repubblicana del 1948, ossia di titolare della funzione giudiziaria, depositaria privilegiata di uno dei tre poteri dello Stato e per questo assistita da precise guarentigie, funzionali all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: in primis indipendenza e imparzialità.rnLa riflessione che condusse l’Assemblea costituente a decidere per un modello di magistratura che superasse, e al contempo risolvesse, le storture passate affonda le proprie radici negli anni di vigenza dello Statuto albertino, laddove le leggi elettorali e sull’ordinamento giudiziario, a fronte delle scarse guarentigie statutarie, disegnarono la figura del magistrato e la definirono nei suoi rapporti col potere politico.rnIn tal senso, attraverso la disamina di un profilo circoscritto ai requisiti di eleggibilità al parlamento e, per la sola epoca statutaria, di nomina al Senato regio dei magistrati, si tenterà di riannodare il filo di un dibattito tutt’ora in corso, tra scelte di rottura e altre nel segno della continuità, tra questioni in apparenza risolte e altre assolutamente dimenticate, in un tema classico del diritto costituzionale: “magistratura e politica”.rnEsula da questa ricerca una più generale riflessione sulla posizione costituzionale della magistratura in epoca liberale e in epoca repubblicana.
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