Vite immaginarie

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«È hashish... dà fuoco all’immaginazione», così disse il poeta Albert Samain quando lesse le Vite immaginarie di Marcel Schwob. Il fuoco di questo libro brucia ancora: oggi, se tanti lettori scoprono in Borges gli incanti più sottili e vertiginosi del fantastico e di una certa occulta matematica della narrazione, riconosceranno in Schwob un maestro e un modello di quella letteratura. Erudito esploratore della biblioteca di Babele, autore precocissimo di fondamentali ricerche sulle origini dell’argot, appassionato cultore di Villon, che ricondusse al suo vero luogo, fra i malfattori della banda dei Coquillards, Marcel Schwob (1867-1905) inventò un nuovo genere di narrativa d’avventura, che non cerca un contatto diretto con la realtà, ma passa per le vie traverse della filologia e della mistificazione, sprofonda nella «antichità eliogabalesca» - così disse E. de Goncourt - come in una riserva di sogni, per rendere alla vita bruta quella carica allucinatoria che essa ha in origine. A lui, giovane che fu sempre vecchissimo, fecero omaggio Jarry e Valéry, dedicandogli le loro prime opere; e Oscar Wilde, dedicandogli The Sphinx. Nella Parigi dei martedì di Mallarmé e dei gloriosi inizi del «Mercure de France», anni in cui fu disegnata in ogni particolare la carta della modernità letteraria, di cui ancora viviamo, l’ombra elusiva e notturna di Marcel Schwob ci appare a ogni crocicchio essenziale. Le Vite immaginarie, pubblicate nel 1896, segnano il culmine della sua opera: sono ventitré ‘percorsi di vita’, brucianti di rapidità, dove incontriamo personaggi illustrissimi, come Empedocle o Paolo Uccello o Petronio, e gli ignoti destini di Katherine, merlettaia nella Parigi del Quattrocento, o del maggiore Stede Bonnet, ‘pirata per capriccio’, o degli impeccabili assassini Burke e Hare - e tutti circondati dalle folle senza nome di mendicanti, criminali, prostitute, mercanti e eretici che abitano la storia. Ma tutti eguaglia la prosa illusoriamente semplice di Schwob. Per lui, secondo l’esempio di Aubrey e di Boswell, la biografia è scienza dell’infimo particolare; il suo occhio coglie solo quei gesti, quei momenti che distinguono irrevocabilmente un destino da ogni altro. Eppure, come Schwob stesso disse del suo amato Stevenson, si tratta di un «realismo perfettamente irreale, e appunto perciò onnipotente». È vano, come pure in Borges, tentare di discriminare il vero e l’immaginato in queste superfici splendenti, perché tutto vi è visionario e segretamente unito in una sola catena, a dimostrare le parole di Schwob secondo cui «la somiglianza» è «il linguaggio intellettuale della differenza» e «la differenza... il linguaggio sensibile della somiglianza».
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