La moda nel secondo dopoguerra

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L’innovazione è un bisogno fisiologico, in ogni processo culturale, anzi, si può giungere a sostenere che senza di essa non c’è cultura affatto: ma certo, quando ci si occupi dei settori particolarmente sensibili della ricerca artistica (si tratti delle arti visive, o di quelle del suono, dello spettacolo, delle lettere, la cosa non cambia), la novità, l’obbligo di cercare immagini di originalità, di non ripercorrere sentieri già triti, divengono condizioni determinanti, veri e propri “sine qua non”. E dunque, sarà ormai inutile tentare di condannare quanche fenomeno stilistico dicendolo “di moda”, o accusandolo di “seguire la moda del momento”. La ricerca di stile non è come la produzione del pane, o di altri generi di prima necessità necessari per la sopravvivenza; forse, in questo secondo caso, i processi produttivi possono fare a meno di spendere energie nel “nuovo” (ma sarà poi vero, forse che col tempo non mutano anche le forme del pane e della pasta?). Sta di fatto che, qualora si tratti di arte, il variare, mutare, spiare da dove vengano i soffi della moda, costituiscono premesse difficilmente eludibili. E la moda è tale, così si chiama, perché incarna come meglio non si potrebbe questa necessità primaria, la rivela, la mette in scena con una sensibilità straordinaria: come il galleggiatore, nelle partite di pesca, che trema, si agita alla minima increspatura delle acque, e al minimo strappo del pesce che abbocca, o che solo sfiora l’esca.
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