Il male che resta. Armi e guerra in utopia tra Cinque e Seicento

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Nel lungo catalogo dei mali politici censiti dalla riflessione, accanto alla tirannide, alla diseguaglianza, al governare per sé invece che per i governati, la guerra, nella sua doppia veste di guerra offensiva o interna, come guerra civile, ha assunto un posto di assoluto rilievo, come dimostra, e contrario, anche la fortuna politica del tema della pace tra l'antico e il moderno. Se l'utopia dei moderni si presenta con intenti rifondativi della convivenza sociale, capaci di togliere i mali dal mondo, rendendo lunga, prospera e felice la vita dei suoi abitanti, diverso sembra il suo atteggiamento nei confronti dello stato. Questo, nelle utopie elaborate nel secolo di ferro e fino a tutto il seicento, sarà con invidiabile realismo, presentato sia come armato, sia talvolta in guerra. La guerra, pur ricacciata indietro nel tempo della genesi dello stato, sarà sempre prevista e sovente praticata, restando il male che resta e che i ben costrutti programmi ideati dai fondatori di repubbliche non riusciranno, né vorranno eliminare. Il volume, analizzando i modi di questa presenza nei discorsi utopici, che nella loro topologia si collocano in isole lontane e irraggiungibili, in cui la difesa sembrerebbe superflua, più che scorgervi il segno di un'incoerenza, segnala la metabolizzazione, anche in utopia, dell'esperienza della conquista europea delle terre d'oltreoceano. La lezione americana, relativa alla fragilità del bene, nutre dunque con armi e guerra i sogni della ragione miscelandoli con quei tratti realistici che per gli utopisti sembreranno costituire la migliore garanzia della loro realizzabilità e durata.
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