Del capitalismo e dell'arte di costruire ponti

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Mentre il mondo anglosassone discute tranquillamente di capitalismo, in Italia persino la sinistra evita di nominarlo, forse nel timore di non apparire sufficientemente omologata a quel pensiero unico per il quale il capitalismo è puramente e semplicemente l'economia. Eppure di capitalismo è necessario tornare a parlare, se si vuole tentare di uscire dalle contraddizioni del sistema in cui viviamo, il quale poggia in modo gravemente squilibrato sui tre pilastri del mercato, dell'impresa e dello Stato.Lo squilibrio rischia di aggravarsi nel momento in cui le necessarie distinzioni da cui nasce la scienza economica hanno iniziato a trasformarsi in un ininterrotto processo di separazione. Le ultime fasi di questo processo sono rappresentate dall'autonomia assunta dalla finanza, ormai contrapposta al processo produttivo, e dal distacco della produzione da qualsiasi riferimento ai bisogni di una comunità territoriale. Il prezzo maggiore di ciò ricade su quella vasta maggioranza di donne e uomini cui va solo una piccola quota delle risorse mondiali. Ma sono i diritti fondamentali di tutti i cittadini, anche nei paesi avanzati, ad essere ormai minacciati.Esiste una via d'uscita? Secondo l'autore sì: contrastando con «ponti e dighe» il processo di separazione in atto, pur nella rigorosa salvaguardia delle distinzioni, e superando le soluzioni cui era approdata la socialdemocrazia europea nella sua meritoria affermazione e difesa dei diritti della persona umana e di cittadinanza. Oggi il welfare è patito dal sistema economico come un costo: occorre operare, cosa non facile data l'assenza di comunicazione tra società civile e società politica, perché bisogni e diritti collettivi si trasformino in un positivo sbocco di mercato. Regionalismo e nuovo associazionismo sono le premesse necessarie per tornare a socializzare la politica. E su di esse l'Italia può forse dire ancora qualcosa all'Europa.
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